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Bisogna ammettere che questo Gravity funziona piuttosto bene. Sembra un po' la risposta messicana allo spagnolo Buried con la sola differenza che dalla claustrofobica cassa da morto qui si passa all'agorafobico spazio astrale.
La trama è risaputa: due astronauti, un uomo e una donna, lui veterano lei alla prima missione, rimangono senza shuttle a causa di una violenta pioggia di detriti di satelliti che un missile ha colpito per sbaglio.
Come faranno a salvarsi, visto che manca l'ossigeno, che la loro navicella è distrutta, che lei è in preda al panico per la situazione e la poca esperienza?
Anche qui, come deve accadere nel cinema, sarà proprio l'elemento debole tra i due a tirare fuori gli artigli, pur con i dovuti alti e bassi che la difficile situazione porta con sé. Situazione che il regista Alfonso Cuarón riesce a rendere coinvolgente per lo spettatore. Il panico di Ryan diventa il nostro panico ed emergono dal (nostro) subconscio paure antiche come quella già citata degli spazi aperti che si va sommando (fosse anche solo a livello concettuale) con l'altra per il buio, quindi per l'ignoto, tipica dello spazio, fino ad arrivare alla paura di restare da soli, abbandonati e senza possibilità di farcela. Lo spazio aperto Cuarón prova anche a sfruttarlo nell'utilizzo che fa del 3D anche se pure lui in un paio di occasioni si lascia ammaliare dal classico e abusato effetto dell'oggetto che ti arriva in faccia.
Ma a parte questa pecca veniale il momento peggiore del film, quello che spezza davvero il pathos fino a quel momento creato, avviene nel momento in cui i due astronauti superstiti si separano dicendosi di fatto addio. Le parole utilizzate da Kowalski sono davvero fuori luogo e puzzolenti di retorica, ma d'altra parte forse il silenzio avrebbe peggiorato le cose.
Momento dell'addio a parte Gravity è in buona sostanza una variante del viaggio dell'eroe, con le classiche prove o soglie da superare e un mentore a fare da guida ad una protagonista che accetta e non accetta il ruolo che il destino le ha assegnato.
Il finale è consolatorio, in un certo senso matematico perché dà equilibrio nel gioco della vita e della morte, però in qualche modo sembra quello che i produttori hanno voluto e non quello immaginato (e magari girato?) dal regista. Scrivo questo perché a un certo punto la mente di Ryan inizia a vacillare, sembra quasi che si sia rassegnata a morire, interviene a farla rinsavire Kowalski, un sogno con Kowalski. Da quel momento in poi Ryan riprende il controllo fino al finale consolatorio. Eppure c'è qualcosa che mi fa pensare che la scena della disperazione prima del sogno sia parte di una cornice che doveva chiudersi dopo quel finale che si è visto a cinema. Un po' come in The Descent con lei, anche lì guarda caso protagonista è una donna forte, che esce dalla grotta ma solo nella sua ultima fantasia prima di morire. Ma ad Hollywood si sa che l'happy end è obbligatorio.
GRAVITY
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Titolo
originale
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id.
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Regia
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Alfonso
Cuarón
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Sceneggiatura
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Alfonso Cuarón, Jonás Cuarón, George
Clooney (non accreditato)
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Nazione
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USA, UK
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Anno
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2013
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Case
di produzione
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Esperanto Filoj, Heyday Films
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Personaggi e interpreti
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Ryan Stone (Sandra
Bullock), Matt Kowalski (George Clooney), mission control nella versione
originale (Ed Harris)
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Fotografia
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Emmanuel
Lubezski
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Montaggio
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Alfonso Cuarón, Mark Sanger
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Musiche
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Steven Price
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Sito ufficiale
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