15 aprile 2014

[RECENSIONE] 13 sins

È da un po' di tempo che il cinema racconta l'attuale crisi economica, e di questo argomento se ne occupa non solo il cinema impegnato ma anche quello popolare e più apparentemente scanzonato. Drag me to Hell di Sam Raimi, The Box di Richard Kelly (usciti a breve distanza l'uno dall'altro nel 2009), passando per la variante comedy Botte di fortuna fino ad arrivare a questo 13 sins che Daniel Stamm rifà da un film tailandese del 2006. Del 2006, otto anni fa: tanto per ribadire che non ci si è svegliati questa mattina con la voglia di parlare di crisi economica. Se si andasse ad analizzare un po' più nel profondo si scoprirebbe l'acqua calda che il cinema di genere non ha mai smesso di parlare di crisi, non solo economiche.

Protagonista di 13 sins è un ragazzo, Elliot (Mark Webber), con qualche problemino economico e di famiglia. Sta per sposarsi e il suo lavoro non ingrana, anzi è a rischio licenziamento ed il motivo è simile a quello che trascinerà Christine del film di Raimi all'inferno: non è per niente stronzo e cinico per fare certi mestieri. Sua moglie poi (Rutina Wesley) ha problemi con il suocero razzista (Tom Bower), mentre suo fratello (Devon Graye) è un cerebroleso che abbisogna di costose cure.
A tirarlo fuori da questi guai una telefonata.
13 sins parte molto bene e dice già tutto prima dei titoli di testa con la premiazione-celebrazione dell'anziano signore in Australia che dice sconcezze e taglia il dito della povera presentatrice. Il signore finisce morto ammazzato da un poliziotto che fraintende il suo voler prendere dalla tasca interna delle giacca il telefonino. A chiudere questa sequenza d'apertura l'inquadratura della telecamera di sicurezza.
Poi parte la storia di Elliot, uno che con la vita dell'anziano signore non ha niente a che spartire. Le 13 prove da superare in cambio di soldi, sempre più soldi, sono ovviamente sempre più difficili ed hanno uno scopo antropologico, scientifico: dimostrare che chiunque in determinate condizioni si trasforma in un animale. Non è un caso che la prima prova, a quanto pare uguale per tutti, sia quella di ammazzare una mosca, per sfatare il modo di dire "non farebbe male ad una mosca" perché chiunque, dietro compenso, soprattutto se squattrinato, farebbe del male ad una mosca e non solo. Ma queste sono le altre prove che non staremo certo qui ad elencare. Possiamo dire però, senza spoilerare troppo, che inizialmente, quando le prove sono difficili ma non troppo, si ride abbastanza. Anche quando la situazione diventa mano a mano sempre più drammatica permane comunque una certa ironia che da una parte smorza ma dall'altra accentua la gravità della situazione: dal telefono di Elliot che squilla in continuazione e nei momenti meno opportuni per proporre prove sempre più a rischio, alla suoneria stessa del telefono con la musica tipica del circo uguale, mistero, per tutti i concorrenti. Ironia presente almeno fino a un certo punto.
La drammaticità maggiore sta nel fatto che a giocare a questo gioco non è soltanto Elliot e che le sfide finali prevedono un coinvolgimento emotivo/personale impensabile, un po' come accadeva nel citato The Box. Inoltre dovunque può nascondersi un complice dei misteriosi sadici burattinai giocherelloni, il che fa pensare alla lontana al film The Game di David Fincher.
13 sins purtroppo cresce bene fino a un certo punto ma poi nel finale si smoscia, ritira gli artigli allineandosi ad un target popolare, troppo popolare. Mentre Kelly e Raimi ti lasciavano di stucco, Daniel Stamm, il regista del notevole L'ultimo esorcismo, non osa quel finale che ti annienta e ti lascia muto per diverse ore. Ed è un peccato anche perché nella frenata finale codarda si sono consumati mezzi copertoni.

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