12 dicembre 2017

[RECENSIONE] Friends Don't Let Friends

La spiegazione finale di Friends Don't Let Friends può giustificare molte cose, a cominciare dalla sporadica comparsa da un certo punto in poi del film della mini telecamera. Quello, col senno del poi, è un indizio non solo di quello che accadrà alla fine e che tutto spiega. Nella telecamera c'è anche altro: c'è un retaggio, una tradizione, c'è Blair Witch Project e tutto un sottogenere. Il film non è un found footage sia chiaro, la presenza della telecamera lo vedo da anello di congiunzione tra il personaggio di Stephanie e il regista Jamie Brown.
Si apre con Stephanie (Brittany Anne Woodford) una ragazza che in un momento di pazzia ammazza il suo fidanzato che la sta lasciando. È notte: chiama gli amici, una coppia e un ragazzo single da sempre innamorato di lei, per farsi aiutare a raggiungere il deserto dove seppellire il corpo del poveretto. Da lì in poi, una volta arrivati nel deserto, iniziano ad accadere imprevisti, cose folli che ribaltano la logica, la modificano influenzata dalla follia. Pazzia che esce fuori non solo dai personaggi per la situazione particolare che vivono. La realtà prende un'altra forma condizionata da mille cose, superficiali e profonde, cinema e archetipi. La realizzazione di questa idea in cui sono l'irrazionale e la follia a dettare legge è però abbastanza deludente. I modi scelti dal regista/sceneggiatore Jamie Brown di rappresentare le follie, o meglio le (pazze) influenze dietro gli avvenimenti raccontati/immaginati non sono coinvolgenti come vorrebbero. Col senno del poi, cercando di non spoilerare, visto che c'è un influsso che muove Stephanie, le sue azioni e i suoi pensieri, la sua creatività nel fare o immaginare le cose, per forza di cose mi viene naturale trasferirla in qualche modo al regista. Stephanie è Jamie Brown, le sue pippe mentali sono anche dell'altro, le sue visioni sono le sue creazioni e Brown sbaglia in alcune scelte, in alcune rappresentazioni di questa follia, la voce del rimorso più di tutto. L'idea insomma c'è, anche lo stesso deserto è il giusto posto metaforico per il racconto, la realizzazione un po' meno: manca delle giuste atmosfere coinvolgenti, che tutto rendono credibile, anche l'incredibile, prima dello svelamento finale che tutto spiega.

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