I film che mi piacciono
particolarmente mi mettono soggezione: non riesco a parlarne con naturalezza.
E' la paura che le poche parole di
un giudizio sprezzante e frettoloso distruggano quella polverina magica che
ancora mi fa luccicare gli occhi.
Succede così, ad esempio, con tutti
i film di Mario Bava: come posso riuscire a spiegare che due scene di pochi
minuti in tutto possono rendere caro, imprescindibile, indimenticabile un film
che ha comunque una valanga di altri difetti?
Anche Vanishing on 7th street di Brad Anderson mi suscita le stesse emozioni, quando ne leggo in
giro recensioni pessime che si soffermano su dettagli inutili e dimenticano i
punti fondamentali.
Dimenticano un incipit che stordisce:
tutte quelle sparizioni che non a caso si verificano nel buio di un cinema.
Dimenticano una capacità di gestire le luci e le ombre che non può non essere
di un artista del cinema. Dimenticano le suggestioni di una storia in cui la
morte ti viene incontro senza darti spiegazioni.
Vanishing
on 7th street è emozione viscerale, di quelle difficili da farsi
scivolare addosso, nonostante attori così così, nonostante l'evidente low
budget.
Il regista Brad
Anderson (L'uomo senza sonno) in un'intervista di presentazione del film
sosteneva proprio che uno spettatore non cerca una storia, ma semplicemente
emozioni: in questo film ne ha dato dimostrazione a trecentosessanta gradi,
portandoci dentro una notte senza fine per soffermarsi a saggiare le nostre
reazioni estreme di piccoli esseri umani spaventati dalle nostre stesse ombre.
Stefano Nicoletti
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