28 giugno 2014

[RECENSIONE] Il capitale umano

Credo sia iniziato il momento di ammettere che Paolo Virzì Ã¨ un regista sottovalutato. Per capirci, non è come il tanto acclamato Paolo Sorrentino che fino ad ora ha fatto però solo film sulla solitudine (se c'è dell'altro io non lo vedo), no, lui, nei suoi lavori mette tanta roba e diversi temi ricorrenti. Uno di questi lo ritroviamo anche nel suo ultimo Il Capitale Umano ed è quello della crisi economica, un fil rouge che inizia da La Bella Vita, il suo esordio, e passa per OvosodoBaci e AbbracciTutta la vita davanti fino a Tutti i santi giorni.
Qui la crisi è più che mai un elemento fondamentale per gli snodi narrativi ed è vista in un'ottica più pessimista senza quell'umorismo a volte cinico altre volte spensierato tipico della commedia toscana. Infatti Il Capitale Umano è il film meno commedia di Virzì, perché nella storia che racconta (ambientata nel 2010) c'è davvero poco da ridere. È l'avidità di Giovanni Bernaschi (Fabrizio Gifuni) e dei suoi compari in affari a creare la crisi semplicemente tentando di sfruttarla illegalmente. È la voglia di scalata sociale a far entrare in questo giro di squali un nuovo elemento, Dino Ossola (Fabrizio Bentivoglio), un immobiliarista desideroso di piazzarsi una volta per tutte nella famiglia Bernaschi, visto che sua figlia (l'esordiente Matilde Gioli) si frequenta con il figlio di lui (Guglielmo Pinelli). Ma Dino non ha fatto i conti senza i due ragazzi: un fatto di cronaca nera che li vede coinvolti complicherà i piani dei due. Meglio ancora, Dino, troppo preso da questa sua voglia di piazzarsi qui e là, dimostra di aver perso di vista la sua famiglia e di non conoscere poi così bene le abitudini di Serena. Insomma, Dino dimostra in diverse occasioni di vivere un po' scollegato dalla realtà il che aumenta ancora di più il rischio delle sue mosse.

Dicevo che Il capitale umano è il film in assoluto meno divertente del regista livornese, la sua prima esplicita non commedia: persino in La prima cosa bella si ride di più. Ma c'è dell'altro. Di nuovo nel suo cinema Virzì esce dalla sua Toscana e, dopo la Roma di Tutti i Santi Giorni, punta verso nord direttamente nel cuore della Brianza (i cittadini del posto hanno avuto da ridire per il ritratto a detta loro poco realistico) e realizza un film teso, un thriller piuttosto anomalo scritto molto bene e interpretato più che dignitosamente dagli attori primari e comprimari. Questa sua voglia di allontanarsi dai suoi luoghi abituali è evidente anche dal fatto che la sceneggiatura, scritta dal regista insieme a Francesco Bruni e Francesco Piccolo, prende spunto da un romanzo omonimo del 2004 dell'americano Stephen Amidon, pubblicato da noi nel 2008 da Mondadori.
Una struttura a flash-back, un po' come in Rapina a mano armata o Le Iene, in cui si parte da un momento e si arriva ad un altro cambiando di volta in volta punto di vista.

Il film però, lo accennavo all'inizio, come tutto il cinema del suo regista attraversa diversi temi e può essere letto anche come un discorso sugli equilibri sballati di un mondo marcio e sbagliato in cui non vincono le nuove generazioni, o i più meritevoli, ma solamente chi è più opportunista, cinico, bravo nel non far capire agli altri le proprie intenzioni maligne, invadente, spietato. Sono queste le qualità e i meriti distorti che premiano. A queste si deve aggiungere anche la fortuna, perché alla fine ad equilibrare il tutto, a dare la svolta capace di decretare un vincitore, se così lo possiamo definire, ci pensa il caso.
È grazie a una botta di fortuna che l'impensabile avviene facendo emergere dall'ombra chi non ti aspetti.
Proprio quel personaggio dirà alla fine ad un altro -Mi crede un poveraccio? E invece questa è la più grande pensata della mia vita- O qualcosa del genere. Con una mossa, servita su un piatto d'argento dalla fortuna, questo personaggio si libera dai suoi problemi fregandosene degli altri e dimostrando che chi va con lo zoppo impara molto presto a zoppicare. In questo mondo cinico e spietato gli unici personaggi che un po' si salvano sono le due donne, di Bernaschi (Valeria Bruni Tedeschi) ed Ossola (Valeria Golino). Sono loro due i personaggi meno negativi del film perché in qualche modo estranei a tutto ciò che accade intorno a loro. Il discorso vale in particolare per la psicologa Roberta, la compagna di Dino incinta di due gemelli e desiderosa di farsi accettare da Serena, figlia di Dino di primo letto. Carla Bernaschi vive, un po' come Dino, in un mondo tutto suo. Probabilmente non ha mai capito bene quali sono i traffici del marito e passa le sue giornate indecisa se andare a comprare scarpe oppure se passare dalla sua antiquaria di fiducia ad acquistare gli ultimi arrivi, finché un vecchio teatro in abbandono non risveglia in lei vecchi entusiasmi.

Ma uno degli aspetti più interessanti de Il Capitale Umano è il ragionamento sui media.
Chi dovrebbe essere informato su certe cose rimane ignorante, mentre chi sarebbe il caso che rimanesse all'oscuro da certe informazioni le viene a sapere scatenando tutti i suoi pregiudizi.
Si potrebbe andare ancora avanti nell'analisi libera del film ma mi rendo conto di aver abbondantemente superato la soglia della sopportazione ed è già un miracolo se qualcuno è arrivato fino a questo punto nella lettura. Concludo allora semplicemente consigliando Il Capitale Umano, anche come risposta alle pippe mentali e al manierismo/tecnicismo di Sorrentino.


Nessun commento:

Posta un commento